sabato 22 novembre 2008

La Ministra presciolosa fece i decreti ciechi, di Patrizo Dimitri

Inserisco un lungo commento di risposta ad un articolo fiume di Mario Pirani pubblicato il 21 novembre su "la Repubblica" .

Sono un professore associato di Genetica della Sapienza, vengo da una famiglia di artisti e non ho parenti nell’accademia, quello che ho ottenuto ho dovuto sudarmelo con il lavoro, come molti altri colleghi e forse ho ottenuto meno di quello che avrei meritato. Vorrei replicare all’articolo di Mario Pirani intitolato “Quanto costa al paese l’Università di parentopoli”, un pezzo che è più o meno è il clone “editorialmente modificato” de ”Le mille università dalle cattedre facili” apparso su Repubblica del 26 ottobre del 2007. Allora Pirani sosteneva che gli universitari protestavano solo perchè vedevano minacciati i loro privilegi, e metteva in evidenza lo sfascio della riforma dei corsi di laurea che ha generato inutili Atenei e nuove cattedre. Oggi Pirani parte dalla protesta degli studenti e sostanzialmente ribadisce un leitmotiv un po’ scontato: poveri studenti, non si accorgono di fare il gioco dei baroni e di aiutarli a conservare lo status quo, dovrebbero in realtà “rivendicare addirittura più tagli e non meno”. Niente di più sbagliato: i toni paternalistici di chi sa cosa sarebbe meglio per gli studenti fanno sorridere; gli studenti non sono robot nelle mani dei baroni, sanno quel che fanno e fanno quello in cui credono. Gerontocrazia vuol dire anche questo, pensare che i giovani siano sempre sprovveduti.

E’ vero, l’Università italiana ha sicuramente bisogno di una riforma organica, forse di una rivoluzione. Bisogna rivedere il 3+2, forse anche abolirlo, avendo il coraggio di tornare indietro. Bisogna attuare una seria riforma della docenza che consideri finalmente i ricercatori, una revisione del reclutamento e della progressione della carriera legate alla valutazione. Bisogna cancellare le aberrazioni delle lauree ottenute grazie ai crediti regalati, degli Atenei telematici o ad personam, come la Korè di Enna che ha un corpo docente quasi interamente composto da politici; tutti fenomeni a dire il vero proliferati nel precedente governo Berlusconi. Sono da condannare e da estirpare assenteismo, nepotismo e corruzione, metastasi da anni ormai radicate non solo nell’Università, ma ogni ambito della nostra società. Stupisce che sebbene questi fenomeni siano noti da tempo e denunciati da stampa e televisione, il potere e il delirio di onnipotenza dei soliti noti finora non sia stato intaccato di un millimetro, anzi. In un paese diverso dal nostro, sarebbero già partite delle inchieste giudiziarie, molte teste sarebbero cadute.

Detto questo, a mio parere Pirani non colpisce nel segno, oggi come nel 2007, quando attacca il mondo universitario in toto, senza differenziare, facendo di tutta l’erba un fascio. E’ come sostenere che tutti i giornalisti sono prezzolati, penne al servizio di questo o quel potente, che tutti i parlamentari sono dediti alla corruzione o che tutta la sanità è allo sfascio. Invece di pensare a demolire gli Atenei pubblici dipinti come covi di fannulloni e baroni, una stampa corretta e seria dovrebbe informare i lettori che il mondo universitario e della ricerca è eterogeneo, come sottolineato di recente anche dall’economista Tito Boeri ad Anno Zero. Esiste l’altra faccia degli Atenei, quella pulita che non fa notizia, fatta di gente (studenti, borsisti, ricercatori e docenti) che in scarsità di fondi da anni svolge didattica e ricerca ad alto livello, con serietà e passione. Gente che non vede l’ora di essere valutata con criteri seri e internazionalmente riconosciuti, perchè sa di avere tutte le carte in regola. Gente per cui la valutazione del lavoro scientifico è una prassi fisiologica, sperimentata ogni qualvolta invia un manoscritto con i risultati del proprio lavoro alle riviste internazionali che utilizzano il peer-review, il famoso giudizio dei pari, attualmente stravolto in Italia. Sparare nel mucchio, non discriminare tra i bravi e i nullafacenti, tra gli onesti e i corrotti è un’azione grave e scorretta che danneggia e svilisce proprio i migliori talenti, i cervelli che esistono e resistono in condizioni difficili nei nostri Atenei e che invece andrebbero sostenuti.

I problemi della ricerca in questo paese allo sbando non sono una novità, ma oggi la loro gravità è ulteriormente cresciuta, con conseguenze negative enormi sullo sviluppo culturale e tecnologico. In Italia, i fondi per la ricerca pubblica, già scarsi, sono ormai diventati cronicamente insufficienti, a causa delle ultime penalizzanti finanziarie di tutti i governi e di una gestione poco congrua e estemporanea dell’esistente; si rubano centinaia di milioni di euro già destinati alla ricerca scientifica pubblica per darli all’Alitalia, per colmare il buco derivato dalla cancellazione dell’Ici o addirittura per salvare le banche.

La ricerca scientifica è un elemento cardine per la crescita di un paese evoluto e per questo molti stati programmano in largo anticipo piani dettagliati di investimento e spendono per ricerca pubblica ingenti risorse e significative porzioni del PIL. La media europea è del 2%, i paesi scandinavi e il Giappone superano il 3% (la Finlandia arriva addirittura al 15%), la Germania è intorno al 2.5%, mentre l’Italia è una conclamata “Cenerentola” con un mediocre 0.9%. La drammaticità di questo dato è confermata anche da Renato Dulbecco, famoso genetista molecolare e premio Nobel, che ha recentemente dichiarato che “chi investe così poco in ricerca non può essere scientificamente competitivo né attirare a sé o trattenere i suoi ricercatori migliori”. Da noi, poi, i ricercatori sono pochi, circa 3 su un totale di mille occupati, rispetto alla media europea che è di 6 su mille, e mal pagati. Malgrado ciò, i nostri ricercatori sono al terzo posto tra i paesi del G8 per produttività scientifica (numero di pubblicazioni e brevetti in rapporto ai fondi ricevuti), quindi meriterebbero di avere maggiori opportunità di finanziamento.

Fanno bene gli studenti a protestare contro i tagli indiscriminati della legge 133, perché quei tagli non colpiranno affatto nepotisti e fannulloni, ma graveranno solo sulle spalle di chi studia e lavora. Nella legge 133, infatti, non c’è traccia di interventi che prevedono una valutazione seria e trasparente a favore del merito. Fanno bene gli studenti a protestare anche contro il recente decreto 180 del Ministro Gelmini. In quel decreto, infatti, le misure per identificare gli Atenei virtuosi a cui assegnare risorse (finanziamenti e posti) sono descritte da criteri solo accennati e quindi ancora da interpretare e sviluppare. Nel definire la virtù di un Atenei, i bilanci o il numero di docenti sembrano pesare più di ricerca e didattica, elementi che invece devono essere prioritari. Sarebbe, invece, più serio e ragionevole valutare direttamente Facoltà o Dipartimenti e incrementare o tagliare risorse a seconda della produttività scientifica e del livello della didattica. Inoltre, le “rivoluzionarie” modifiche del meccanismo di elezione dei commissari, apportate a concorsi già banditi e ora bloccati, prevedono che solo i professori ordinari vengano inclusi nelle commissioni, cosa che aumenterà il loro potere e non renderà certo più virtuosi i nepotisti. Inoltre, il frettoloso decreto crea un problema tecnico; in alcuni settori non sarà disponibile il numero di ordinari sufficiente per espletare il sorteggio dei commissari e si dovrà pescare nei settori affini, creando non poche complicazioni.

Se tutti meccanismi concorsuali sperimentati fino ad oggi, apparentemente innovativi, hanno generato le aberrazioni nepotistiche e clientelari che vengono denunciate, è ragionevole pensare che ciò sia dipeso non tanto dai meccanismi stessi, quanto da chi li ha pensati e gestiti fino ad oggi, ovvero da quella parte dell’accademia dedita agli inciuci e fortemente legata al potere politico. Ormai da anni sono convinto che i concorsi dovrebbero tornare ad essere nazionali e prevedere commissioni fatte da una massiccia componente di esperti internazionali, non perchè più bravi o più belli, ma solo in quanto indipendenti e svincolati dalle lobbies politico-accademiche. Qualcosa di simile è stato proposto anche dal collega Piergiorgio Oddifreddi, sempre su “Repubblica” in un articolo “Docenti stranieri per salvare l’Università”. Dopo un decennio di tale pratica, si potrebbe formare una nuova generazione accademica eticamente e scientificamente valida e passare anche alla chiamata diretta da parte degli Atenei con finanziamenti legati ai risultati.

Mariastella Gelmini è nata in provincia di Brescia e forse non conosce il detto laziale: “La ghiatta presciolosa fece li ghiattucci cèchi.”. Una vera riforma sull’Università, infatti, richiede tempo e pensiero, non può essere definita da decreti in stile “Bignami”, partoriti e approvati in tutta fretta: in questo modo si continueranno a generare errori, aberrazioni e mostruosità. Un vera riforma deve essere organica, condivisa e progettata dialogando anche con chi negli Atenei lavora e studia, al di là delle appartenenze a schieramenti politici o d’occasione, per definire i meccanismi virtuosi che vanno premiati e quelli perversi che devono essere scoraggiati. Bisogna mappare le sacche di inefficienza e corruzione e intervenire tagliandole o ridimensionandole con strumenti idonei. Per iniziare, si potrebbero utilizzare le valutazioni già prodotte dal Civr, ma anche mettere finalmente in moto l’agenzia di valutazione Anvur. Invece, questo governo, con tagli indiscriminati e misure improvvisate che penalizzano Università e Ricerca pubbliche, per ora sembra accanirsi solo contro la parte migliore degli Atenei: se non si cambia la strategia, fannulloni e nepotisti se la spasseranno indisturbati come sempre.

1 commento:

Anonimo ha detto...

molto intiresno, grazie