martedì 18 settembre 2007

Che fine ha fatto l'ANVUR?

Si è parlato molto dell'Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione dell'Università e della Ricerca) che sarebbe dovuta nascere dalle ceneri del CIVR e del CNVSU. L'Anvur avrebbe dovuto valutare con serietà l'attività di ricercatori e professori e innescare un meccanismo virtuoso per premiare le università che assumono i più bravi, ovvero "Chi sbaglia, paga", aveva detto Mussi. Ottima idea, sulla carta.
Ora ci chiediamo in quale oscuro ed umido meandro del Ministero della Ricerca e dell'Università si sia andata a nascondersi l'Anvur. Si sa solo che il decreto per la sua istituzione è stato bloccato dal Consiglio di Stato. Che ci sia un virus sconosciuto che infetta e rallenta tutte le azioni del Ministero?


Pubblico un articolo di Vittorio Sgaramella sull'Anvur, uscito vari mesi fa su Repubblica.


In Italia da sempre urge la necessità di riformare università e ricerca: oggetto specifico di un dibattito ormai antico è un nuovo ente, l’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR).
La necessità aguzza l’ingegno, ripeteva mia madre. Aguzziamolo e capiamo meglio che cosa vogliamo e come. Dalle discussioni in atto e dai documenti che girano emergono richieste diverse: così in un “Appello per il rinnovamento dell’Università” alcuni colleghi sanciscono che “non ci può essere autonomia senza risorse, né risorse senza responsabilità, né responsabilità senza valutazione”. Ben detto: auspico solo che l’autonomia sia vista come un mezzo, non come il fine di un impegno teso a migliorare la vita; e che a una corretta valutazione segua una puntuale attuazione. Altri chiedono al Ministro interventi contro un “sistema che permette di addomesticare le valutazioni”. Dio sa, e così anche il Ministro, che è purtroppo vero. Una commissione dell’Accademia dei Lincei invoca “criteri che non siano mai punitivi, ma solo premiali nei confronti delle università meritevoli”. Buonismo?
Siamo in tanti a aspettare un migliore sistema di valutazione nei confronti non solo dell’università, ma della docenza in generale. Questo perché, mentre la tradizionale universitas studiorum (dopo la Chiesa, l’istituzione più longeva della nostra civiltà) sta faticosamente cercando di rinnovarsi, come efficaci centri di formazione superiore si stanno affermando i grandi istituti di ricerca, specie nelle scienze. Tra i migliori la Rockefeller University di New York: il suo motto è “Pro Bono Humani Generis” e nel ’44 O. Avery vi scoprì il DNA. Ora ospita felicemente poche centinaia di studenti e altrettanti professori, tra cui molti Nobel. Non da meno sono gli Istituti Max Planck in Germania. Nelle bioscienze emergono il Cold Spring Harbor Laboratory di New York, l’European Molecular Biology Laboratory di Heidelberg, il Molecular Pathology Institute di Vienna. Molti sorgono nei paesi orientali. E noi? In questo senso facciamo poco, meno di quel che dobbiamo e possiamo. Il discusso IIT di Genova è un progetto calato dall’alto e va seguito con attenzione. Certo un sistema di valutazione non autoreferenziale potrebbe darci una mano a individuare e sostenere i nostri pochi settori di reale eccellenza.
Ciò sarebbe possibile in quanto la valutazione preliminare (ex-ante) di chi si candida a insegnare e ricercare nelle scienze è più semplice che in altre discipline: i titoli da contare e pesare sono le pubblicazioni in inglese, lingua franca della scienza, apparse su riviste internazionali. Della più impegnativa valutazione consuntiva (ex-post) non tratteremo qui, se non per dire che se l’ex-ante è stato buono, l’ex-post sarà agevolato: ma è fondamentale che operi dal basso e dalla periferia.
Su questi problemi si sono già cimentati in tanti (CNVSU, CIVR…): ora spunta l’ANVUR. Circolano linee-guida per il suo regolamento che prevede un apparato di tutto rispetto: un organico stabile con direttore e consiglio direttivo di sette membri a tempo pieno, un presidente, consulenti ecc. E almeno cinque anni di durata e cinque milioni di € l’anno di spesa. Un impegno, anche di competenze scientifiche, che rischia di aggravare un sistema già debole. Se l’obiettivo è trovare valutatori esperti, indipendenti e efficaci, la missione è (quasi) impossibile. Troppo pochi soldi? No, troppo pochi gli esperti realmente tali! Il loro numero in Italia è così ridotto che quelli presenti in un dato settore non possono esser indipendenti: con i candidati da valutare, o collaborano, o competono. Un’indipendenza opaca svaluta la più lucida esperienza.
È un fatto che da noi, più che altrove, docenza superiore e ricerca avanzata sono in crisi: ne segue che i maggiori responsabili sono coloro che le hanno valutate. Quindi, se vogliamo cambiare musica, cambiamo suonatori. Quale altra soluzione se non rivolgersi oltre confine? Guardiamo alle esperienze degli altri, ma anche alle nostre realizzazioni. Tra le prime ricordiamo i risultati di paesi a noi vicini per dimensioni, storia, geografia. L’impiego di esperti stranieri è diffuso in Spagna, Irlanda, nei paesi baltici e altrove. Da noi potrebbe anche essere un elemento di rottura, indispensabile per superare il nostro classico gattopardismo che ci fa cambiare solo per restare come eravamo. Ma evitiamo stucchevoli autocommiserazioni e riconosciamo a esempio le buone prestazioni dei nostri fisici, entro e fuori i confini nazionali. Evitiamo anche di risuscitare sistemi imbolsiti e pensiamo al nuovo. Si consideri una mini-ANVUR, che aiuti gli enti erogatori di cattedre e fondi pubblici a istruire le valutazioni ex-ante e i fruitori a stilare i consuntivi, entrambi a perfezionare le valutazioni ex-post. E se ne contempli anche l’abrogazione dopo cinque anni, a meno di seri motivi. Se in quel periodo la mini-ANVUR avrà elaborato regole generali e reso gli enti erogatori in grado di funzionare normalmente, sarà la benemerita.
Il nostro sistema docenza/ricerca di fatto s’è sinora sottratto a una seria valutazione grazie a un’abusata “libertà accademica”. L’invocata “cultura della valutazione” si coniughi con una “cultura della responsabilità” e entrambe si traducano in una prassi efficiente e duratura.

Vittorio Sgaramella

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